Finalmente, lo scorso weekend io e Marzia abbiamo visto Coco, il film Disney-Pixar. Negli stessi giorni eravamo impegnate a divorare le ultime pagine del primo, acclamato romanzo di George Saunders: Lincoln nel Bardo. Avevamo già discusso i monologhi dei suoi fantasmi, sempre firmati per esteso come gli epitaffi dell’Antologia di Spoon River. Avevamo ammirato le citazioni di eminenti storici, a volte autentiche, altre inventate, ma sempre puntuali nel presentare la natura sfuggente della realtà. Avevamo persino ricordato il racconto Terra della Guerra Civile in grave declino, e il modo in cui trattava lo stesso periodo storico.
Poi siamo andate al cinema, e quando il protagonista di Coco si è ritrovato a varcare la soglia del luccicante mondo dei morti, è stato tutto più chiaro. Quei varchi che ammettono il bambino in un oltremondo incantevole, sotto lo sguardo di burocrati sorridenti ma inflessibili, erano davvero, davvero simili ai tornelli di accesso a Disneyland. E così ci siamo rese conto che George Saunders aveva trasformato la morte in un parco a tema.
Come in Coco, il Bardo in cui finisce il figlioletto del presidente Lincoln è una sorta di limbo, un non luogo in cui gli ospiti devono fare i conti con la memoria e cercare la salvezza nell’empatia, tra malefici, girotondi di bizzarre creature e apparizioni meravigliose.
Le similitudini finirebbero qui, se non fosse per un’ultima caratteristica che accomuna le due opere: il tempo che deciderete di dedicare a ognuna sarà ben speso, e di sicuro non lo rimpiangerete, se mai doveste trovarvi nel Bardo…